INNER GAME
LA TEORIA DELL'INNER GAME
Negli anni '70, Timothy Gallwey, un maestro di tennis, sviluppò la teoria dell'inner game, un approccio rivoluzionario che farà di lui uno dei padri fondatori del mental coaching.
All'epoca, il coaching sportivo era fortemente orientato verso aspetti tecnici e fisici, mentre la componente mentale della performance atletica era spesso trascurata o non affrontata in modo sistematico. In questo contesto, Gallwey osservò che molti atleti, nonostante un alto livello di preparazione fisica e tecnica, vedevano le proprie prestazioni diminuire a causa di interferenze mentali che potevano essere descritte come una lotta tra due aspetti della propria mente. Pertanto, definì i due componenti principali di questo dialogo interiore: il Sé 1, che rappresenta il giudice interiore, critico e perfezionista, e il Sé 2, che simboleggia la parte intuitiva, istintiva e automatica dell'atleta, capace di eseguire azioni complesse senza uno sforzo consapevole.
Il Sé 1 è quella che dice all'atleta: "Non sei pronto", "Quel colpo è troppo difficile e lo sbaglierai", "Non sei abbastanza bravo". Questa voce si attiva tipicamente in momenti di pressione, amplificando la paura di sbagliare e imponendo un controllo eccessivo sui movimenti. Il Sé 1 è legato all'ego e tende a proteggere l'individuo dal fallimento attraverso il controllo e l'autocritica, alimentando però l'ansia e la tendenza a voler evitare errori a tutti i costi. Per il Sé 1 è meglio non fare che rischiare di sbagliare e, paradossalmente, questo controllo eccessivo finisce per interferire con la naturale esecuzione del gesto atletico, trasformando ciò che potrebbe essere un'azione fluida e spontanea in un atto complesso, rigido e frammentato.
Un esempio del Sé 1 in azione si osserva nel fenomeno del choking (soffocamento) osservato da Baumeister (1984), un famoso psicologo sociale americano, in situazioni di estrema pressione. Il choking viene definito come una diminuzione considerevole nell'esecuzione di un'abilità normalmente realizzabile da un atleta.
Nell'apprendimento di una nuova abilità, un atleta attraversa tre fasi: la fase cognitiva, in cui il movimento è controllato e frammentato; la fase associativa, dove diventa più fluido e semiautomatico; e la fase finale, autonoma, nella quale i movimenti sono automatici e consistenti, grazie alla memorizzazione procedurale. Tuttavia, sotto pressione, l'atleta tende a focalizzarsi su singoli aspetti dell'abilità, cercando di controllarla a livello conscio. Questo ripiegamento sulla memoria dichiarativa ostacola il naturale automatismo della memoria procedurale, causando un peggioramento della performance. Pensiamo a un automobilista esperto che guida in modo automatico. Se invece dovesse pensare consapevolmente a ogni singolo passaggio — premere la frizione, spostare la mano sul cambio, inserire la marcia corretta — probabilmente perderebbe concentrazione e rischierebbe un incidente.
Il Sé 1 è il nemico più grande della natura automatica e inconscia che permette di svolgere azioni e movimenti senza doverli ricordare consapevolmente. Durante eventi decisivi, come un punto decisivo nel tennis, un tiro libero nel basket o un rigore nel calcio, il Sé 1 può sovraccaricare l'atleta con pensieri di paura. In questi momenti, l'atleta può perdere il collegamento con il proprio istinto e con i movimenti naturali, proprio perché il Sé 1 sta cercando di guidare eccessivamente ogni singola azione.
Il Sé 2, invece, rappresenta quella parte della mente che agisce in modo spontaneo, senza sforzo cosciente o giudizio, e si manifesta al meglio quando l'atleta è in uno stato di flow, con la mente quieta e focalizzata sul momento presente, senza interferenze. Un tennista che ha ripetuto migliaia di volte il movimento del servizio non deve pensare consciamente a ogni fase del colpo, perché il Sé 2 attinge alla memoria muscolare e ottiene una performance fluida.
Secondo Gallwey, la chiave per il successo nello sport risiede nella capacità di ridurre l'influenza del Sé 1, lasciando che il Sé 2 possa agire liberamente. Quando il Sé 1 cerca di prendere il controllo, sovraccaricando l'atleta di istruzioni e critiche, il risultato è una performance frammentata, meccanica e spesso insoddisfacente. Al contrario, quando è in grado di lasciare andare il controllo, il Sé 2 può esprimersi pienamente, portando a una prestazione più naturale e coordinata.
Gallwey descrive questa dinamica con la formula "Performance = Potenziale - Interferenze". Il potenziale è ciò che l'atleta è in grado di fare grazie alla pratica e all'allenamento, mentre le interferenze sono rappresentate principalmente dal Sé 1.
L'OSSERVAZIONE NON GIUDICANTE
Gallwey ha introdotto un approccio innovativo per migliorare la performance atletica, focalizzato sullo sviluppo di una consapevolezza interna priva di giudizio. Abbandonando l'approccio tradizionale, in cui l'allenatore impartisce comandi tecnici, Gallwey incoraggia gli atleti a osservare i propri movimenti senza valutarli come giusti o sbagliati. Questo processo, che chiama osservazione non giudicante, aiuta a ridurre ansia e tensione, consentendo un apprendimento più fluido e naturale.
Gallwey propone di abbandonare l'approccio tradizionale, che consiste nell'istruire un allievo con comandi e tecniche su come fare qualcosa. Invece di imporre un controllo esterno, egli invita a sviluppare una consapevolezza interna, invitandolo a osservare il processo con curiosità e attenzione. In pratica, Gallwey preferisce non dire "Colpisci la palla così," ma fa effettuare un colpo naturale all'allievo per poi chiedergli di osservare dove cade la palla, come si muove e perché. L'apprendimento più efficace avviene quando l'atleta sperimenta in prima persona il movimento, senza dare spazio all'interferenza del Sé 1. Questo approccio, noto come coaching non interventista, permette all'atleta di acquisire fiducia nel proprio corpo e sviluppare una comprensione intuitiva dei movimenti.
La consapevolezza diventa l'elemento centrale: osservando con attenzione, l'allievo sviluppa automaticamente una maggiore sintonia con il proprio corpo e con il gioco stesso. Gallwey è convinto che questa forma di apprendimento sia più efficace, perché il giocatore inizia a fidarsi delle proprie percezioni e del proprio istinto. Così facendo, le abilità si raffinano senza l'ingombro della mente analitica, che spesso introduce ansia e incertezze, rendendo il processo più complesso di quanto sia necessario.
L'abitudine a valutare ogni movimento come giusto o sbagliato è uno dei principali ostacoli alla performance naturale dell'atleta. Quando l'atleta valuta ogni errore come una mancanza, si crea un ciclo di autocritica che porta a tensione muscolare, stress mentale e insicurezza. La mente critica, o Sé 1, continua a focalizzarsi sugli errori e sulle carenze, interferendo con il fluire dei movimenti spontanei che caratterizzano il Sé 2. Gallwey scoprì che questo giudizio costante porta a una sorta di "paralisi analitica", una condizione in cui l'atleta, impegnato a cercare di correggere sé stesso, perde la fluidità e la naturalezza necessarie per la performance ottimale. Secondo Gallwey, la chiave per interrompere questo ciclo di giudizio sta nel semplice atto di osservare e nel prendere coscienza delle proprie azioni senza sovraccaricarle di significato. Piuttosto che giudicare il risultato di un colpo o di un movimento, Gallwey incoraggia l'atleta a concentrarsi sugli aspetti oggettivi dell'azione, come il movimento della racchetta, il rimbalzo della palla, o la sensazione del corpo durante l'esecuzione. L'osservazione non giudicante permette all'atleta di entrare in uno stato di attenzione senza distrazioni.
La pratica dell'osservazione non giudicante nella teoria dell'inner game anticipa in molti aspetti le pratiche di mindfulness, che incoraggiano una consapevolezza non giudicante del presente. La mindfulness, resa popolare da Jon Kabat-Zinn nel contesto clinico, si è successivamente dimostrata efficace anche nello sport come pratica che aiuta gli atleti a mantenere la concentrazione sul momento presente, riducendo l'interferenza dei pensieri legati al passato o al futuro. Kabat-Zinn definisce la mindfulness come l'atto di prestare attenzione, momento per momento, senza giudizio. Gallwey applicò questo principio prima ancora che la mindfulness fosse ampiamente diffusa, riconoscendo che la capacità di focalizzarsi sull'esperienza immediata poteva aiutare l'atleta a gestire meglio lo stress e a migliorare la propria performance. La mindfulness applicata allo sport ha dimostrato di favorire una serie di vantaggi che includono una maggiore tolleranza all'ansia, una migliore gestione della fatica, e un miglioramento delle abilità di coping, ossia le strategie che l'atleta utilizza per gestire situazioni difficili. Attraverso la pratica della mindfulness, l'atleta impara a osservare i propri pensieri e le proprie sensazioni senza reagire o giudicare, sviluppando così una maggiore capacità di adattarsi agli imprevisti e agli errori che possono verificarsi durante la competizione. Gallwey non utilizzava il termine mindfulness nel suo linguaggio, ma la pratica dell'osservazione non giudicante nella teoria dell'inner game rispecchia molti degli obiettivi delle tecniche mindfulness: accettazione, consapevolezza del momento presente e gestione dei pensieri critici. Questo tipo di osservazione consente agli atleti di acquisire una percezione più autentica dei propri movimenti, delle proprie emozioni e delle proprie intenzioni, favorendo una performance in cui il corpo e la mente lavorano in sintonia.
La pratica dell'osservazione non giudicante ha implicazioni psicofisiologiche significative per gli atleti. Riducendo il giudizio critico, l'atleta abbassa i livelli di tensione muscolare e di cortisolo, l'ormone dello stress. Quando un atleta è concentrato esclusivamente sul momento presente senza giudizio, i segnali fisiologici legati alla paura dell'errore e alla frustrazione diminuiscono, portando il sistema nervoso a uno stato di calma e di efficienza. Come evidenziato in studi successivi, lo stato di osservazione non giudicante permette un maggiore rilassamento muscolare e una ridotta attivazione del sistema nervoso simpatico, che controlla le risposte di lotta o fuga in situazioni di stress (Gardner & Moore, 2007). L'osservazione non giudicante non solo migliora la performance nel momento presente, ma è anche un elemento chiave per un apprendimento motorio più efficace. Quando l'atleta smette di giudicare ogni errore, il processo di apprendimento diventa più naturale e meno frustrante. L'atleta, anziché concentrarsi su come evitare l'errore, si concentra sulle sensazioni del movimento, creando una memoria muscolare che facilita il miglioramento progressivo. Questo approccio è particolarmente utile per sport che richiedono precisione e coordinazione, come il tennis, il golf o il tiro con l'arco, dove la ripetizione e la sensazione corporea sono fondamentali.
LASCIARE ANDARE
Uno dei concetti centrali della teoria dell'inner game è il principio del lasciare andare, ovvero la capacità dell'atleta di evitare il controllo conscio eccessivo dei movimenti, permettendo alla performance di emergere in modo fluido e naturale. Per Gallwey, il lasciare andare non significa ignorare l'importanza della tecnica, ma liberarsi del bisogno di monitorare ogni gesto, fidandosi delle capacità acquisite attraverso l'allenamento.
Gallwey descrive la necessità di un allenamento mentale che addestri l'atleta a lasciare andare il desiderio di perfezione e accettare che l'errore è parte dell'apprendimento.
Lo stato mentale che si raggiunge con il lasciare andare ha molte somiglianze con la teoria del flow di Mihály Csíkszentmihályi, secondo cui la performance ottimale si raggiunge quando la mente è completamente libera da distrazioni, interferenze e giudizi, permettendo uno stato di totale immersione nell'attività. Questo stato, chiamato appunto flow o flusso, è caratterizzato da una concentrazione così intensa che l'individuo perde la percezione di sé e del tempo, sentendosi totalmente coinvolto nel compito. Nel flow, ogni azione scorre naturalmente verso la successiva, senza sforzo o esitazione, in una sorta di armonia tra corpo e mente. Le abilità personali e le sfide della situazione si equilibrano perfettamente: l'attività è impegnativa ma non eccessiva, mantenendo alta la motivazione. In questo stato, la performance tende a essere spontanea e intuitiva, libera da autocritiche e pensieri distruttivi. Questo concetto è molto influente nella psicologia dello sport, nella creatività e nel lavoro, dove il flow è associato al miglioramento delle prestazioni e a un profondo senso di soddisfazione.
Il lasciare andare è la condizione basilare che permette di entrare in uno stato di flow, dove il Sé 2 può operare senza interruzioni e l'atleta esprime appieno il suo potenziale.
Quando un atleta si fida del Sé 2, accede a livelli di prestazione superiori, poiché si libera dell'ansia e dei dubbi che derivano dall'eccessivo controllo mentale. Gallwey ritiene che fidarsi del Sé 2 significa, in ultima analisi, fidarsi delle proprie capacità e competenze acquisite, nonostante la presenza di possibili errori. Così, l'atleta sviluppa una forma di autostima e fiducia che non si basa sulla perfezione ma sulla capacità di lasciare fluire la performance, accettando che ogni movimento e ogni azione facciano parte di un processo di miglioramento continuo.
La pratica del lasciare andare è particolarmente utile negli sport che richiedono movimenti ripetitivi e coordinati, come il tennis, il golf o il tiro con l'arco. In questi sport, il controllo eccessivo dei movimenti può introdurre tensione e rigidità, riducendo la precisione e l'efficacia dell'azione. Nel golf, ad esempio, un giocatore che cerca di controllare eccessivamente lo swing potrebbe finire per irrigidire i muscoli, compromettendo la fluidità e l'equilibrio del colpo. Il lasciare andare diventa quindi uno strumento fondamentale per mantenere una postura rilassata e una concentrazione ottimale.
Gallwey ha dimostrato che la chiave per liberare il potenziale atletico risiede non nel controllo ossessivo, ma nella fiducia e nella consapevolezza, aprendo la strada a una nuova visione della performance sportiva in cui la mente e il corpo lavorano in armonia.
Durante l'allenamento, l'osservazione non giudicante e il lasciare andare lavorano insieme. Quando un atleta osserva i propri movimenti senza giudizio, la mente si rilassa e l'apprendimento avviene spontaneamente, perché l'atleta è libero di esplorare e sentire il movimento senza la paura di sbagliare. È il giudizio eccessivo a interrompere il naturale processo di apprendimento, poiché crea ansia e tensione. A differenza dell'allenamento convenzionale, che tende a correggere ogni errore immediatamente, l'osservazione non giudicante permette agli atleti di esplorare nuove strategie motorie e trovare soluzioni personali.
L'osservazione non giudicante ha impatti positivi anche sul benessere emotivo dell'atleta. La riduzione del giudizio non solo elimina l'ansia da prestazione, ma permette all'atleta di separare la propria identità dal risultato della prestazione, evitando che un errore diventi un riflesso del proprio valore personale. Gli atleti imparano così ad accettare i propri errori come parte del processo di apprendimento, piuttosto che vederli come fallimenti. Tale accettazione favorisce una mentalità di crescita, in cui ogni esperienza, positiva o negativa, è vista come un'opportunità di miglioramento.
C'è un circolo virtuoso nello sport: più ti diverti più ti alleni; più ti alleni più migliori; più migliori più ti diverti.
- Pancho Gonzales -